1 L’arte è sempre interrogazione ed è sempre indicibile.
Il frigorifero è dicibile, le auto, le motociclette e i vestiti, pur esposti nei musei, restano solo dicibili, in quanto solo oggetti estetici che vedono e texturizzano il mondo ma non vanno oltre la crosta del mondo.
Gli stilisti vestono, gli artisti svestono e svelano.
L’importante è essere fuori dal conformismo sia della rappresentazione che della presentazione perché l’arte è creazione di differenza.
La mia generazione ha vissuto una stagione densa e corposa. Dove sta oggi la densità? Cos’è lo spessore?
Non ci sono limiti; ma qual è il limite, il con-fine?
L’arte è spesso detta, pellicola dell’esistente indifferenziato come spesso la critica. E il non detto? Il nascosto? Il rossore? L’esperienza?
2 L’arte è sempre invasa dal dissenso e non desidera consenso.
Esiste la non “dittatura dello spettatore” ma il desiderio ritrovato della “dittatura del produttore” cioè la dittatura dell’artista che non vuole più essere servo di scena ma primo attore. Vuole essere -anche se utopico visto il complesso sistema dell’arte- il burattinaio e non solo il burattino.
L’arte, si sa, è divisa da sempre tra ORIGINARIETÀ e ORIGINALITÀ; originarietà, andare alle fonti, alla storia, alla memoria, ristabilire i valori; originalità, sperimentazione e neo-avanguardie come tradizione del nuovo.
Noi siamo per il nuovo nella tradizione, in cui originale e originario si chiasmano e si intrecciano.
Assoluta libertà espressiva di ogni artista.
Però posso ugualmente vivere l’età della tecnica rifiutando la mimesi tecnologica, la smaterializzazione, la virtualità, pur facendone i conti.
La tecnica è la sostituzione del mondo e si produce per riprodursi anche se si sostituisce il mondo con una sua immagine. Ma l’arte tutta, mette spesso il dito nelle piaghe del mondo, indicando le ferite e vuole essere “autre”, oltre – altro, indicibile.
C’è bisogno di un’illusione in più che non sia solo rivestimento del mondo ma che sia INUSUALE, non EDITO. De Chirico diceva: “Andare oltre la crosta del mondo”.
L’arte è spesso dissenso e usa la tecnica per contestare e superare la tecnica. L’arte è sempre interrogazione e non solo esclamazione pur suadente dove il processo creativo e magico è al di là della tecnica.
Galimberti si chiede e ci chiede: Cosa facciamo noi della tecnica o cosa la tecnica fa di noi?
L’interrogativo deve sempre essere presente.
La tecnica non svela lo splendore della verità.
Il rischio è che l’arte sia solo flusso informativo o cosmesi estetica del mondo.
L’arte è in costante fuga, tocca spesso il naufragio e cammina sul rasoio tagliente.
L’arte è il non detto, è evento, è il nascosto e il nascosto non lo collochi dove vuoi, si trincera, non si concede, si nasconde; altro che velocità, virtualità, smaterialità.
Esiste una voluta e ricercata banalità della cultura, una ricerca dell’ordinario forse dovuto all’indifferenza civile di una società arrogante.
L’elemento di straordinarietà è scomparso dovuto al magma dell’indifferenziato e dell’opaco.
Mentre noi crediamo ancora alla straordinarietà, alla differenza.
Esiste un bombardamento della comunicazione, una finta eccitazione che annulla il turbamento.
E’ vero che esiste uno sfondamento dell’arte e la comunicazione tenta di riunire l’allontanamento in una non veritiera socializzazione.
La comunicazione, anche se è uno strumento da utilizzare, vuole l’unificazione e non più lo scambio di significati.
Insomma il fare è sempre interrogante in quanto l’arte, come ho detto, non è cibo da mansire; l’arte non è un azienda; l’arte è esperienza per il mondo che si emoziona sul mondo; l’arte non richiede facilità del guardare; deve essere sempre un atto civile che inizia .
L’arte richiede all’artista di deporre la maschera, tutte le maschere e di imparare a disimparare, per creare un fare sempre più interrogante.
3 L’arte non è né lieve, né ottimista, né pacifista e nemmeno un iceberg di seduzione o una semplice variante sempre prestabilita.
Sono contro l’indifferenziato, sono contro la globalizzazione, sono ancora per la lentezza.
Basta con l’omologare subito e catalogare. Credo ci si debba schierare contro il linguaggio dominante che annichilisce ogni spazio di ricerca e di critica per difendere il facile consenso del qui-subito-ora. Sottrarsi quindi alla velocità, all’informazione apparente, all’indifferenziato. Credo ci si debba interrogare perché l’arte è sempre interrogazione, è turbamento che deve turbare. La cultura è disturbo e non consenso generalizzato anche perché l’arte non va mai a dormire, o morire, nel letto che le hanno preparato poiché il nuovo non è una categoria.
L’arte è menzogna è falsificare le affermazioni, è organico all’arte che preferisce l’inganno alla sterile lealtà.
Degas diceva che l’arte richiede malizia, se non furbizia e inganno come un crimine. Una realtà che sembri vera bisogna che sia falsa.
Non esiste, ovviamente, una sola verità, in quanto l’arte è sempre, è ancora produzione di differenza contro questa indifferenziata, quindi equivalente, nostalgia del nulla, del tutto uguale. René Girard ci dice: laddove manca la differenza, c’è la minaccia della violenza.
4 Il rischio è che l’arte sia solo flusso informativo e comunicativo se non sospensione di giudizio.
L’arte è il non detto, è evento, è il nascosto ed è su questo che la critica dovrebbe interrogarsi.
Mentre noi crediamo ancora alla straordinarietà, alla differenza che non comunica. L’arte è esperienza per il mondo che si emoziona sul mondo; l’arte non richiede facilità del guardare, del capire perché non si comunica il mistero, il nascosto, il non detto ma si comunica solo il detto.
Sono per la centralità dell’opera e per la lateralità dell’artista.
4 E la critica?
Si divide in critica d’arte, arte della critica (Lyotard, Bonito Oliva), critica dell’arte (critica del sistema politico dell’arte, Bonfiglioli). Noi siamo ancora per la critica dell’arte ma dopo la fine, la morte dell’arte della critica, quindi del critico come artista, del critico creativo vorremmo si ritornasse all’autentica critica d’arte non certo globalizzata e indifferenziata, non solo ermeneutica, né esame, né valutazione, né recensiva, né, ovviamente, censura. È quel non detto che l’artista che non sa che deve divenire un corto circuito attraverso la parola che incontra le immagini.
Vorrei che la “parola” riacquistasse l’evocazione persa durante l’omologazione. Bisogna per non essere indifferenziati, che la critica cerchi il nascosto, quello che non si vede andando “oltre la crosta del mondo”.
Ci vuole uno sguardo che ritorni ad essere differente che non proponga, anche civilmente, le solite interpretazioni, i soliti superficiali esercizi di ermeneutica o di storia ma che entri nel mistero della creazione.
Voglio alimentare la separatezza tra lo storico dell’arte e il critico militante.
Diceva Adorno: “in ogni opera d’arte… appare qualcosa che non c’è”. È quel qualcosa, quel conflitto che la parola del critico deve svelare interrogandosi anche sulla propria perdita o sull’imprevisto, che non è mai del tutto equivalente.
Basta con il tutto dicibile ma interrogarsi sempre sull’indicibile.
Concetto Pozzati