Concetto Pozzati

  • Concetto Pozzati

          Ristoria / Rimemoria

 

 

1   Nell’’83 scrissi un articolo che fece “imbufalire” la “bolognesità” se non il perbenismo accademico. Ne stralcio alcuni passaggi. Il titolo e l’argomento erano: Bologna “Ristoria e Rimemoria del ‘60”… gli anni della mia generazione.

“Raccomando” le esperienze degli anni ’60, zummando sulle “scene” del luogo (Bologna), si rischia la richiesta di… medaglie o la presunzione di “importanza”. L’autobiografia è inevitabile per “giovanotti”, come noi, “precocemente invecchiati”.

 

Il ‘60 esiste perché esistiamo, perché operiamo, perché gli anni ‘80 non rincorrerebbero l’immagine (un’immagine truculenta che porterà, inevitabilmente, ad “un’onda” raffreddata se non aniconica) senza l’immagine del ’60, e il ‘60 è importante con l’occhio e le sollecitazioni avute oggi, nell’80. Parlare del ’60 non deve solo dire parlare del passato, lamentarci dell’insuccesso, pretendere riconoscimenti, giubilei, patenti di “maestri”, non bisogna dire come eravamo. Parlare del ‘60 vuol dire misurarci sull’oggi dove la storia sia anche ristoria, dove lo sguardo sia doppio, da dietro la nuca. Gli artisti del ’60 sono stati senz’altro i primi a ritrovare il piacere dell’immagine (o del progetto), un piacere però irrigidito e vetrificato dall’ideologia e dalla criticità. Le “mani” avevano i “guanti”.

 

Esistere, essere in, nell’’80, vuole dire ricapire, riamare, dare importanza al ‘60: un momento così vitale e pregnante da far dell’arte italiana, insieme all’inglese, la più viva d’Europa. Non fu pubblicizzata, amata, né “sponsorizzata” dalla critica anche se la critica fu amica parallela, attenta e affettuosa, della pittura. La critica, allora, rischiava insieme all’arte e all’artista. Il critico non era ancora manager, né istituzione pubblica.

 

Tra il critico e l’artista scoccava un “corto circuito”. L’artista aveva bisogno delle teorizzazioni del critico e lo stimava perché si mescolava, si modificava all’interno delle esperienze fattuali.

 

[…]Il ‘60 (‘59 per esattezza) si mette gli occhi: vede, scruta, guarda e non si accontenta più di sentire. Il rapporto con le “cose”, l’attorno a noi, lo sguardo qui e altrove, il “dentro e fuori” ci trovano pronti…

[…] Il ‘59 è quindi una svolta, la fine dell’informale; dall’anarchismo soggettivo, dall’umoralità intimista  e “post-impressionista”, dalla natura antropologica intesa come “tutto il mondo” ad una “figuralità” o una “programmaticità”.

 

Dopo il sudario, il muro esistenziale, il pessimismo, il nichilismo cieco, gli “occhi vedono”, si ri-tenta la conquista del mondo. Dopo il silenzio, dopo la fine del mondo (anno mille o Hiroshima), gli artisti contribuiscono a quello che chiamo da tempo il “secondo Romanico”.  Cose raccontate, riscoperta dell’uomo, relazione col passato. Non più “autre”  ma oltre. Il ‘60 avverte la storia e dà energia alle opere della storia.

 

[…] La pop art non fu una tendenza ma un’idea dell’arte: non semplice illustrazione glorificazione delle “nuove” merci con sospensione di giudizio ma un’equivalenza critica tra arte e merce. Fu classicamente provocatoria e il “carattere oggettivo del rapporto arte merce nell’ultima stagione felice dell’arte contemporanea, quella della pop art, una stagione in cui il senso, che la critica ritiene d’aver esaurito, resta ancora nascosto dietro alle opere, monumenti elevati al moderno” come acutamente rileva l’amico Bonfiglioli riferendosi non soltanto alla “classica oggettualità americana”, ma “anche al classicismo colto – tra avanguardismo ed eliotiano – della  pop europea” italiana e inglese.

 

Bologna, città periferica e decentrata dai rari incontri si espone però alla naturalità informale. A Bologna non passano, come a Roma, i Kline, i de Kooning, Rauschemberg perché i tempi sono lenti, lunghi, sedimentati senza assi né con New York (Roma) né con Londra (Milano). Bologna è memoria stratificata e alla grande silenziosa, ma annientatrice presenza di Morandi contrappone i passaggi di De Pisis, Guidi, Licini poi Moreni, Tancredi e ancora Pasolini, Leonetti e altri…

 

[…] La Bologna del ‘60, degli ultimi anni ‘50, è ancora una città apparentemente tranquilla, senza contraddizioni, dal tortellino terapeutico, tutta sorretta da una buona e illuminata amministrazione. Una città che continua il suo cammino ombelicale che partendo dal silenzio pungente di Morandi, arriva allo spessore morale e vitalistico di Arcangeli. Da una “natura morta” sedimentata, grattata, quasi arsa e assorbita, ad una “ultima natura” avvolgente, ispessita e “improbabile” come la proposta di Arcangeli.

 

I giovani “meditano” invece una situazione “probabile”. Arcangeli è un magnifico referente da “combattere” e bisogna fare i conti con la sua poetica e dilaniante umanità, con la sua angoscia nascosta, sotto e dentro le pelli della pittura.

Morandi e Arcangeli appunto. Il primo era raro vederlo, il secondo disponibile “quotidianamente”.

 

[…] Morandi… Bologna subisce ancora il suo silenzio velenoso, la sua non generosità culturale, la sua grande autarchia, il suo isolamento, l’eccezionale qualità d’artista.

 

Eravamo alla Biennale di Venezia del ‘64 molto gasati perché attorniati da attenzioni e i nostri quadri erano apprezzati anche dagli americani che “vinsero” il premio, quando arriva la notizia della morte di Morandi. Quando una città perde il suo più grande esponente si libera ed esplode culturalmente; la cultura si orizzontalizza e non rincorre più solo quel gran mito o quell’inimitabile ed inafferrabile qualità. Eravamo per il “ripetibile” e Morandi era terra bruciata per chi lo… imitava…

 

[…] Non “combatto” più Morandi, forse ora, oggi che si è ritrovata la dignità delle mani, oggi che si ripuzza di colore, vedo, penso a quei mucchi di toni posti ad essiccare in via Fondazza su tavole di legno inclinate che ne succhiano l’olio per ottenere un timbro secco, poroso, gessoso: un tono assorbito. Forse ora non combatto più Morandi perché gli anni ‘70, tutti effimeri e concettuali, me lo hanno fatto, per il suo lento farsi, proprio ammirare. Ora che l’arte non è solo l’idea dell’arte, ma anche “opera d’arte”, da farsi, da rigrattare o ricancellare sul cavalletto sommerso da resti di colori, proprio oggi l’opera di Morandi è un alto esempio.

 

[…] Francesco Arcangeli, gli amici lo chiamavano “Momi”. Critico troppo generoso, quasi masochista, pronto a pagare di persona. Umorale, viscerale, ma poeta profondo. “Bisogna avere gli occhi per capire la pittura” diceva riferendosi ad alcuni suoi colleghi forse più filosofi; gli “occhi” li comprammo anche noi per litigare guardando, per possedere il fuori, per non essere soffocati dalla linfa del suo dentro, da quell’odore di pittura quasi vegetale, da quella sofferta nebbia padana rivolta a Turner, da quella martoriata “pietà”. Lo amavamo molto ma dovevamo combatterlo criticamente. Non volevamo essere ingabbiati dal suo “naturalismo” che lo chiamavamo “forestale” ma che per lui era l’informale italiano: una risposta agli “ostaggi” e alle agonie “brut” europee. Lo leggevamo, lo frequentavamo; generoso e pronto era l’unico “grande” bolognese (penso anche a Cesare Gnudi, a Giuseppe Raimondi, a Luciano Anceschi) che non metteva in quarantena, che non ti faceva attendere, fare la fila.

 

[…] “Bisogna scavare di più” ci diceva. Noi invece volevamo risolvere ogni giorno uno o più quadri, veloci, forse superficiali, non possedevamo spessori da scavare, avevamo fretta, volevamo correre ad occhi spalancati. Ora amo la lealtà di Momi, la sua cupa gioia, la sua non capacità di brigare, la sua struggente suicida immersione nel quadro, la sua soggettiva scelta creativa, la sua generosa e morale parzialità.

 

[…] Il peso di Morandi si fa ancora sentire, la sua qualità irrepetibile, la sua struggente e polverosa quattrocentesca intuizione, un’intuizione micro-cosmica, ma universale. Invitiamo a Bologna artisti, critici, letterati, di “tendenze” diverse. Siamo additati di fretta, d’accelerazione.

 

[…] L’Accademia di Belle Arti non ci vuole come insegnati (arriverò a Bologna solo nel ‘76!). Bologna non fece passare i fermenti futuristi e l’astrazione ed è ingenerosa della “figuralità”, delle coincidenze con le “cose”, delle fantasmagorie.

 

Arcangeli, il naturalismo, l’urlo di Moreni, la sensualità di Morlotti, la visceralità di Vacchi, il francesismo di Romiti e la stessa alta introversione di Bendini si fanno pagare. I giovani non accettano la diatriba tra l’astratto concreto venturiano e l’ultimo naturalismo arcangeliano. Il Padiglione U.S.A. del ‘56, la mostra di Pollock a Roma del ‘58, le sale di Licini e di Wols, la splendida rassegna della “Nuova pittura americana” all’attuale PAC a Milano nel 1960 ci vede interessati…

 

[…] Nel 1963 l’assessorato alla cultura del Comune di Bologna, nato per merito di Renato Zangheri, realizza la prima e ampia antologica di Robert Sebastian Matta. Bologna è cambiata: l’istituzione sceglie Matta e non Guttuso, il naturalismo e l’informale sono lontani. Gli artisti bolognesi sono presenti a Tokyo, S. Paolo, Kassel. Nel ‘64 la Biennale veneziana invita addirittura otto artisti di Bologna sostituendo l’egemonia torinese di Casorati; il merito è di Gnudi e Calvesi allora commissari. E a quella Biennale bisogna riferirsi. Bologna è pronta a capire la nuova “merce”.

 

[…]Il ‘68 ci vede battaglieri…

 

“In Italia la contestazione artistica -come scrivevamo allora- esclusi pochi casi, è stata, purtroppo, corporativa: si è contestato all’interno della scatola che la società ti ha costruito. L’artista si è sentito un agente della contestazione perché la società l’ha sempre riconosciuto un uomo più libero degli altri, proprio in quanto artista.

Così è stato fregato e ha ricostituito lo statuto borghese che vuole gli artisti dentro all’arte, come gli operai nella fabbrica e gli studenti (docili) nell’università. Può darsi che la contestazione abbia avuto un’origine culturale-artistica (beat, hippies, neo-avanguardia, rivoluzione linguistica, movimento out), ma questa origine è stata negata, bruciata e forse, ridicolizzata dalla contestazione politica. La contestazione, da artistica, è divenuta politica”. E ancora, sottolineavamo spavaldamente “Oggi non si rappresenta né si presenta, si agisce. Non si modifica la vita con l’arte. Dal momento stesso che traduci il vecchio sfrenato soggettivismo in oggettivismo lucido e consapevole, ti muti in operatore pubblico (esci dalla tua torre d’avorio), la società ti eguaglia nel sistema falsamente unitario (in realtà dissociato) delle specializzazioni; sei un professionista (perché no?). Su questo piano demistificato l’artista può riconoscersi come produttore di cultura, cioè come intellettuale. La contestazione dovrebbe partire da questo punto e non sviare (ancora una volta artisticamente) il problema con un ritorno sfrenato e masturbatorio al soggettivismo, o con la presunta non-integrabilità del dilettantismo generico. L’artista è sdoppiato, porta avanti due esperienze. Da una parte continua la sua produzione, il suo mestiere, perché vive di esso, dall’altra compie degli atti politici”.

 

[…] Il ricambio è avvenuto, i rapporti sono più stretti. Se prima era difficile uscire da Bologna, ora è importante non essere “bolognesi”.

Questa personale cronistoria, qui in parte ricostruita, pubblicata su una rivista specializzata nel 1983 ha scatenato risposte, articoli, interviste.

Mi si è rimproverato di parlare in prima persona, di usare un tono parziale d’artista… Come deve parlare un pittore? Scrive pagine di diario rivendicando la propria storia soggettiva, facendo galleggiare la sua sola esperienza…

Oggi la “professionalità” è un fiore all’occhiello di tutti, ma bisogna però ricordare com’era difficile, in città come Bologna, tramutare il mestiere sacro del pittore in professione e riconoscersi intellettuali, quindi prima uomini che artisti. Sì, è vero, abitavamo tra quattro mura ma vivevamo altrove. Forse il tono era “irriverente” e invadente, scomodo e troppo ciarliero, ma quando finalmente un pittore può essere in prima persona, “l’autobiografia” è inevitabile, forse “inesatta” ma l’artista può solo riflettersi su se stesso.

 

Gli anni ‘60 (1959-1967), anni della rivisitazione delle avanguardie artistiche e letterarie, non riguardano solo Bologna, ma tutto il sistema internazionale dell’arte, tutto il senso del produrre, una “nuova” consapevolezza dell’artista come “produttore” e “riproduttore” culturale.

 

 

Allora potevo richiedere la soggettiva parzialità in prima persona, oggi lavorando insieme agli amici e colleghi per questa mostra devo indossare abiti possibilmente imparziali e far galleggiare gli “spessori” altrui. Devo dare attenzione ai suggerimenti e visualizzare le indicazioni che ci sono state proposte con un lavoro ampio e puntuale proprio perché difficoltoso per estensione e quantità.

 

 

2   Quando si stava progettando la mostra dei maestri-insegnanti

“Figure del 900,1”  il compianto Luciano De Vita con la sua viva franchezza mi prese in disparte e mi disse perentoriamente: “Tu ed io non dobbiamo esserci” proprio per non creare attriti, dissidi, frantumando e sminuzzando l’istituzione in quanto tutti gli altri colleghi non sarebbero stati invitati. Lo stesso perverso problema si è posto ora ancora più forte e più dilatato: invitiamo degli attuali insegnanti che sono stati anche studenti? Dal punto di vista storico e scientifico è un grave errore non scegliere in quanto l’arte è produzione e creazione di “differenza”…; dal punto di vista istituzionale è un cerotto terapeutico, democraticistico… magari indifferenziato. È sicuramente un “peccato” (se non una colpa) non trovare in mostra alcuni artisti di rilievo, tuttora insegnati nella  nostra Accademia, ma quell’avvertimento prudente di De Vita è stato anche condiviso dai curatori di questa rassegna.

 

 

3   Tredici anni dopo la mostra dei maestri (Figure del Novecento,1) a cura di Adriano Baccilieri e Silvia Evangelisti è il “turno” degli allievi illustri: continuità istituzionale, continuità di lettura.

Mi trovo sugli orli di elenchi migliaia di artisti (fine ‘800 sino ai recenti anni ‘90) e tra questi tre parenti: due Pozzati; Mario mio padre, Severo (Sepo) mio zio e un Gaetano Leonesi, zio da parte di madre.

Quante generazioni, quanti destini. Io non feci l’Accademia, perché lo stesso Virgilio Guidi (che grande artista ancora sottovalutato! Che Maestro!) vedendomi in aula mi chiese se ero parente di quei due noti Pozzati e mi disse (in maniera ben più secca ed energica) cosa venissi a fare, non ne avevo bisogno, l’Accademia l’avevo avuta in  casa… bastava incontrarci fuori. Aveva molto esercitato anche…“fuori”, …“autre”.

In un momento di velocità, spesso equivalente e indifferenziata, in un momento di voluta perdita della memoria, risotterrare, far galleggiare grumi e testimonianze, alcune celate, rimemorizzare, visualizzare una ri-storia mi sembra doveroso perché produce materiali utili da ordinare per far di nuovo incuriosire, magari rivendicando la… lentezza.     

Oltre che artisti sono usciti, da questa Accademia, operatori culturali, critici, pedagogisti, designers, fotografi e anche… comici.

Un cantiere trasversale, un centro operativo, un’officina, un atelier dai compiti didattici e di formazione. Ai tempi di mio padre, di Licini, di Morandi l’Accademia era l’atelier, il laboratorio se non la tana (gli studenti non raggiungevano la decina); era un luogo attrezzato per l’esercizio quotidiano e per la ricerca; luogo sensibile da carta assorbente che si adattava ai suoi produttori. Ogni carta, tela, oggetto rimandava all’artista e alla sua sensibilità. Esisteva un idem, una mimesi. Era grembo, intimità, rifugio, osservatorio perché l’artista è un viandante che conquista luoghi e spazi che non ha mai visto.

Oggi nella dilatazione delle iscrizioni, l’officina più che fattuale è un laboratorio di pensieri e di idee differenti. Ma oggi l’atelier si è modificato in quanto è diventato (anche) un centro multimediale e interattivo oppure un’industria come fu l’importante Factory di Warhol.

Certo che l’atelier custodiva le opere, ne era guardiano e sentinella, mentre la Galleria o il Museo deloca, sceglie, presenta, come in questa mostra, rendendo pubblico la famigliare autenticità privata dell’opera.

L’atelier era un’opera respirante e vivente, un’osmosi che si fa specchio dell’artista e come dice Genet è anche “ferita visibile o celata, nella quale ogni uomo si ritrae quando vuole lasciare il mondo per una solitudine temporanea, ma profonda”.

Insomma l’atelier è l’autoritratto dell’artista, degli artisti e questa mostra intreccia per addizione tanti… “autoritratti” anche se quel grande investigatore del linguaggio che è Magritte ci avverte “che un’opera di un’artista deve smentire la sua vita; deve farla mentire”.

 

 

4   Non solo centralità dell’opera ma in Accademia si pratica, si respira, si rispetta anche la centralità dell’artista, artista che fuori della nostra istituzione è spesso cartina di tornasole delle soggettive teorie del critico militante (ammetto con piacere che in questa mostra gli interessanti contributi dei teorici, pur specifici alla propria professionalità, hanno prodotto un taglio da storici dell’arte).

L’artista fuori dall’istituzione è spesso scavalcato, esautorato… è quasi un “servo di scena”.

 

 

5   Bologna è capitale e provincia al tempo stesso,

dove le figure, i protagonisti però non sono mai provinciali.

Il silenzioso destino di Bologna autarchica, tonalmente “rossastra” e “cruciale” si sfalda nell’ultima ed estrema possibilità naturale… è esistenzialmente europea… dall’avanguardia magari moderata… da fronda, poi si velocizza e si oggettualizza dal ‘60 in poi annullando le divisioni geografiche.

La cordialità del “tortellino terapeutico” ( anche il ‘68 è visto pur con preoccupazione ma con scarsa partecipazione), la voluta “bottegara” provincialità (purtroppo ora “bouticcara”), la suadente bonomia del bolognese è “dormia”; i fermenti riottosi sempre sedati e mediati da un’illuminata amministrazione di allora non furono utili al dissenso dell’artista e degli intellettuali che spesso, per “farcela” sono… “scappati”, sono dovuti fuggire.

Si abita volentieri a Bologna ma si vive, culturalmente, altrove.

 

 

6   L’Accademia è un istituto permanente  di produzione culturale ma che deve (ha dovuto) mettere in crisi la propria idea di produzione.

Si sa da tempo che fare arte e insegnare il linguaggio dell’arte significa dialetticamente criticare e interrogare l’arte vivendo la contraddizione interna alla propria alterità.

Decenni fa all’Accademia si praticava la ginnastica della mani e degli occhi e si parlava di maestria, talento, perizia, naturalezza, semplicità magari ancora non capendo che l’arte è sempre formalizzazione di un pensiero. Oggi si è più informati e forse si velocizza troppo e lo stesso logico taglio dato alla mostra dilata gli ultimi decenni  (‘70-‘90) proprio perché i giovani artisti del qui-subito-ora hanno avuto più possibilità di mostrarsi, rispetto a quelli dagli anni ‘30-‘50, scegliendo la leggerezza e la geografia del mondo, più che la pesantezza della storia.

 

 

7   E’ una  storia dell’istituzione di un secolo, inevitabilmente selettiva, dove incontriamo artisti di rilevanza nazionale e internazionale che ci indicano ancora una volta che l’arte è esperienza per il mondo che si emoziona sul mondo.

Questa mostra sottolinea anche che l’artistico non è stato soppiantato dall’estetico come alcuni teorizzano parafrasando l’arte ad un elettrodomestico o come cibo da mansire.

Questa mostra come direbbe  Tahar Ben Jelloun è come un “ uccello che ha vissuto dentro l’albero della… memoria”.

Rimemoria quindi  che diventi ristoria spesso inattesa anche quando l’arte, a volte, soffia la sua asma.

L’arte ha sempre il senso del passato e del suo impossibile.  Ma il passato fa parte del  nostro presente se si modifica la lettura? È però certo che la storia e il passato vanno sempre  vissute sulla punte del nuovo e con gli occhi del presente anche quando si sceglie e si seleziona una mostra dal taglio storico come questa.

Oltre alle decine di maestri che ho incontrato e che altri colleghi mi hanno svelato, mi hanno intrigato quei giovani che sono riusciti a straniarsi, a infiltrarsi e non quelli che rimanendo solo fluidi non ponevano interrogativi.

Anche se capisco il flusso ondulatorio dell’esterno e/o dall’esterno sono contro la globalizzazione perché scelgo ancora la…. tribalizzazione. Questa mostra sono tante “tribù” differenti che si sono date appuntamento senza conoscersi (ma per farsi riconoscere) e che si confrontano in un progetto unitario.

 

Concetto Pozzati

 

 

P.S. Insegno nelle Accademie (Urbino, Venezia, Firenze) dal 1967 e a Bologna arrivo nel ‘76 e scorrendo gli elenchi degli artisti di quegli anni, con occhi dietro la nuca, riconosco moltissimi che erano, compagni e amici, nel mio “atelier” d’Accademia, producendo differenze e dove ho sempre tentato di insegnare quello che non sapevo…

Da Calzolari, il mio primo collaboratore a Urbino, a moltissimi altri che ringrazio per avermi, con il loro lavoro, conferito dignità d’insegnante.