Muro bolognese

Tela sacco. Un omaggio all’informale, a Burri, a Tapies?

 

L’informale fu d’obbligo per la nostra generazione giovanissima; non riuscimmo a sottrarsici perché la linfa di quel trasporto emotivo fu calda per intrighi e per rimandi. Avevamo ancora gli occhi “privati” dentro ad una esistenzialità angosciata ma non patita, eravamo i “telefoni bianchi” dell’informale, eravamo “bravi” e non “informali” ma fu, un’autentica e poetica esperienza. La pittura richiedeva processo, materia, essudazione, anche se a Bologna, allora, bisognava amare l’ultimo naturalismo arcangeliano, ultimo richiamo alla natura, ultimo sudario, ultima frontalità con la pittura sedimentata e spessa che noi giovani non potevamo attendere. Però “Muro bolognese” voleva essere un opera dalla materia solo frontale che non vedeva “oltre” ma che si ossigenava attraverso se stessa e si ispessiva e si alimentava. Uno sguardo “sul muro”, attraverso il gesso, la polvere, la calce, la patina di un tempo. Cancellare, aggiungere, depositare, adagiare: un muro, appunto, anche se “bolognese”.

 

 

Concetto Pozzati 1958

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