retroscena del ’64

Nietzsche diceva che siamo quello che eravamo. Io invece credo alle modificazioni, non credo alle nostalgie, al talento di un tempo perché siamo quello che siamo oggi (magari precocemente invecchiati) e il passato va sempre visto sulla punta del nuovo.

 

Ma mi si chiede qual è stato (per me e per altri) lo spartiacque della Biennale veneziana ed io, con sicurezza, sottolineo che fu quella del 1964.

 

Eravamo tutti giovani e “gasati”. Eravamo “insieme”; una generazione che copiava se stessa. Da una parte Schifano, Angeli, Festa, Fioroni, io stesso, Del Pezzo, Recalcati, dall’altra Aricò, Castellani, Alviani; mancavano Ceroli, Adami, Pistoletto. Ho, però, un ricordo struggente che mi procura ancora ferite. In una delle sale, accovacciato per terra sotto i suoi quadri, avvolto in una enorme sciarpa di lana, il grande Tancredi… stava male, si capiva, i suoi “Capricci” segnati erano ormai esausti… ; Poche settimane e impariamo che si è suicidato gettandosi nel Tevere. Aveva detto: “un filo d’erba combatterà l’atomica”; un filo reciso e spezzato.

 

Ecco che anche la nostra storia diventa ri-storia come la memoria si trasforma in ri-memoria.

 

Amavamo tutti la rapacità pittorica, la libertà era il senso che la pittura era vita, una vita naturale e inspiegabile, indicibile come la felicità, una felicità da saccheggiare con la pittura. Tentavamo il rapporto con il mondo (incenerito dall’informale), con l’esterno, chiasmando soggettività e oggettività.

 

Dicono che la Biennale del ’64 fosse la biennale della Pop Art perché la vinse Rauschenberg  (che non era stato, insieme agli altri americani, invitato ai Giardini ma nella ambasciata americana). In una sola notte decisero di portare -prolungando velocemente, in legno, il padiglione americano- un’opera di ognuno in modo da giustificare il premio al pur grande Rauschenberg. Il potere americano!

 

Eravamo già cleptomani, citavamo l’esistente, in quanto la pop è un d’aprè del mondo anche se preferisco chiamarla “ecole du regard”.

 

Il “retroscena di allora” mi porta a rileggere appunti del ’64 dove si evidenzia che eravamo per la convivenza tra il mondo “introverso”  che ci portavamo ancora dietro e quello “razionalizzante” che ci veniva imposto, o meglio, la reciprocità tra un piano esistenziale e uno artificiale era l’unica cosciente dialettica.

 

Questa dialettica avveniva per addizioni che però non erano solo accostamenti di carrellate mentali sulla memoria e di altri sul quotidiano, cioè quelle addizioni non miravano a creare solo un reportage, bensì un conflitto che non doveva risultare esclusivamente per disagi stilistici ma per contrastanti significati.

 

Se non c’è conflitto c’è identificazione.

 

Oggetto, sì come anonimato, ma non corpo immune dal giudizio. Le immagini pubbliche erano sottoposte a sfruttamento per significare e comunicare. L’ironia entrerà anch’essa a far parte del giudizio come consapevolezza della mistificazione alla quale l’uomo era sottoposto quotidianamente.

 

Contestazione-adesione; cioè un rapporto d’intervento e di sospensione o di distacco al tempo stesso.

 

Questa “contrastata armonia” doveva essere più ambigua possibile e intercambiabile.

 

Integrazione ironica e cosciente finzione?

Anche per questo il disagio sembrava sempre meno evidenziato, il quale però non nasceva più da un senso di colpa, di repulsione o dall’impossibilità di operare una scelta in senso integrale (la mancanza però di tendenziosità non significava il troppo facile giudizio di qualunquismo emesso dagli “impegnati” ma solo un desiderio maggiore di disponibilità).

Cioè l’oggetto, per la sua forza e brutalità fisica, sarebbe impenetrabile dal giudizio indifferenziato mentre noi credevamo alla differenza.

Chi reperisce, con la felicità nel reperire, sulla quotidianità tutti gli emblemi che entrano a far parte del paesaggio-ambiente senza differenziarli, o meglio, chi si identifica totalmente con essi, non è e non sarà mai a disagio (o almeno non avrà mai il dubbio) anche perché l’esterno gli darà sempre infinite possibilità di ricambi, ma comunque allo stesso potenziale livello, che accetterà indifferentemente; però non è a disagio nemmeno colui che in nome della storicità (l’impegno per l’impegno) non si comprometterà mai con la realtà esterna e con citazioni di essa, ricadendo in un “credo” dove solo gli esempi o i tramandi lo potranno aiutare.

Si doveva essere rapinatori storici purché quella “necessaria” avida remora fosse sempre presente urgente e quindi anche compromessa con il mondo di allora. É elementare che nessuno può credere all’avanguardia, anche se solo sperimentale, se non come ipotesi in un relativo arco di tempo e che scaduta l’urgenza, così giustificata, dovrà coscientemente rifugiarsi (per durare) nella “resistenza”. Resistenti sì, ma non all’italiana, che con la scusa della “storicità infallibile” e con la giustificazione che solo lo stare a “casa nostra” li possa ancora salvare, o salvaguardare dalle avanguardie, hanno, dopo tutto, ancora le mani parzialmente pulite.

 

Allora, vien voglia di ribellarsi nuovamente, e così facemmo sin dal sessantaquattro, in quella stessa biennale.